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Ai lati opposti delle barricate: il Novecento nel carteggio tra Jacob Taubes e Carl Schmitt

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Porsi nei confronti di una figura come quella di Carl Schmitt è spesso esercizio scomodo: simpatizzante del nazismo negli anni Trenta, cattolico integerrimo, giurista e filosofo politico, quasi processato a Norimberga, preferì ritirarsi per il resto della sua vita, morirà a 97 anni nel 1988, nel paese natale di Plettenberg, dove continuò a studiare e pubblicare (e tanti sono i suoi libri fondamentali).

Tra le persone che hanno conversato e discusso con Schmitt, figura come interlocutore speciale Jacob Taubes, filosofo, rabbino, simpatizzante dell’estrema sinistra e, negli anni della contestazione, figura di riferimento per studenti e rivoluzionari, quanto di più lontano rispetto al giurista tedesco. Appare evidente infatti già da questi fugaci dati come le due personalità si situino in territori diametralmente opposti, come sottolinea lo stesso Taubes quando scrive che Schmitt «tra il 1933 e il 1938 si fece portavoce di quell’ideologia manichea del nazionalsocialismo che mitizzò l’ebreo come sterminatore della razza ariana».

Eppure Taubes, che riconosceva comunque l’importanza del filosofo Schmitt, così come Alexandre Kojéve che gli disse, invitato dallo stesso Taubes per una serie di lezioni a Berlino, che sarebbe andato a incontrare il controverso filosofo perché era l’unico con il quale valeva la pena parlare e discutere a quel tempo in Germania, si decise a superare quella netta linea di demarcazione che li separava. Taubes aveva affermato in precedenza di aver letto, apprezzato e discusso la Teologia politica di Schmitt, ma il suo comportamento si era sempre mosso tra un’attrazione manifesta per le idee e le teorie del giurista e filosofo e una repulsione per colui che aveva marchiato gli ebrei come nemici, avallando le follie dei nazisti.

Grazie al prezioso libro Ai lati opposti delle barricate, pubblicato da Adelphi con la cura dell’edizione italiana affidata a Giovanni Gurisatti, è possibile seguire l’itinerario di questo rapporto attraverso le lettere che si scambiarono Taubes e Schmitt, qui riportate, ma anche attraverso gli scritti di Taubes su Schmitt: leggendo le pagine di questo volume si assiste ad un dialogo lucido e profondo capace di illuminare alcuni punti nodali non solo della filosofia del Novecento, ma anche della storia degli anni duri e sanguinosi che hanno preceduto lo scambio, una conversazione politica nel senso più radicale del termine. Ai lati  opposti delle barricate copre un arco di tempo che va dal 1955 al 1980 anche se il vero e proprio scambio epistolare tra i due si situa tra il novembre del 1977 e il dicembre del 1980, con circa quaranta lettere in tre anni.

I primi contatti tra i due risalgono però a più di venti anni prima, ma sono lettere strettamente tecniche, come è da ricordare che Schmitt mandò sempre copia dei suoi lavori a Taubes, anche se lui mai rispose pur leggendo sempre con attenzione («Sull’altra sponda c’è sempre qualcuno che aspetta il Suo messaggio in bottiglia – anche se tace» recita una delle lettere). A partire dalla fine degli anni Settanta però Schmitt comincia a vivere in uno stato di progressivo declino mentale, risultando così impossibilitato a continuare il fitto scambio epistolare: per ovviare a questa situazione e proseguire uno scambio di idee dall’altissimo valore umano e filosofico, Taubes decise di compiere un ulteriore passo, andando a far visita a Schmitt, che con questa lettera accettò, dopo molti tentennamenti, l’incontro: «farò tutto il possibile, da parte mia, per incontrarLa di persona. Andrebbe bene però solo qui a Pasel, e a quattr’occhi. Stabilisca lei la data. Prendiamoci il rischio».

Di questi tre incontri faccia a faccia si sa però pochissimo, tanto da essere ammantati da un mistero che ormai nessuno può più svelare: lo stesso Taubes, negli ultimi anni della sua vita e durante uno straordinario seminario sulla teologia politica di San Paolo (sempre pubblicato da Adelphi), quando gli fu chiesto di questi incontri, rispose solo: «i colloqui furono sconvolgenti, ma non posso parlarne. In parte sono coperti dal segreto confessionale (non che io sia un sacerdote, ma vi sono cose che vanno trattate come se lo si fosse realmente)». Le lettere che compongono questo volume, «la mano al di sopra di un abisso» come scrive Taubes riassumendo con un’immagine altamente evocativa la sua decisione di iniziare una corrispondenza con Schmitt, si inseriscono allora in questo non detto della storia, in questo «rischio» vissuto con coraggio da entrambi gli interlocutori.

L’interrogativo maggiore per il lettore riguarda ovviamente come i due possano essersi confrontati sullo sterminio tedesco degli ebrei, su Hitler o su Auschwitz: eppure, contrariamente da quanti ci si potrebbe attendere, sono pochi i riferimenti espliciti a quella tragedia anche se si trova un passo «drammatico», come lo definisce Gurisatti nella sua esaustiva e precisa introduzione, in una lettera di Taubes che anticipa il primo incontro vis à vis: «Possiamo solo sperare che a tu per tu, anche nel non detto, ci riesca di poter fissare forse un frammento, un solo lembo di verità. Poiché se verità e veracità, come dice il Talmud, non sono Dio, sono però il sigillo di quel Dio dinanzi al quale, risorgendo, dovremo apparire nel giorno del Giudizio Universale sui morti, sulla morte. Ne sono certo, poiché altrimenti dopo Auschwitz non riuscirei a respirare». Ancora un non detto, almeno per i lettori e gli studiosi della vicenda, anche se, a leggere le lettere successive all’incontro, Taubes appare soddisfatto, tanto da ringraziare Schmitt per la franchezza «con cui ha parlato anche degli errori commessi».

Il nocciolo più profondo di questo carteggio sta però nella discussione sulle definizioni e la natura della teologia politica, argomento principe della speculazione di entrambi i filosofi, discussione che prende un’ampiezza di ragionamento tale da non permettere qui di essere ripercorsa, tanto impressionante è la profondità e tanto numerosi sono i riferimenti teorici che muovono da una vertiginosa conoscenza di San Paolo, Leo Strauss e Thomas Hobbes. Si pensa di poter chiudere qui così come fa il curatore del volume nella sua introduzione, riprendendo le parole di Taubes che sembra qui tirare le fila del suo rapporto con il giurista del Reich: «Ho letto Carl Schmitt sempre con interesse, spesso avvinto dalla sua acutezza intellettuale e dalla sua maestria stilistica. Nondimento, in ogni sua parola ho percepito qualcosa che mi era estraneo, quel timore, quella paura della tempesta in agguato nel vento messianico secolarizzato del marxismo. Carl Schmitt mi appariva come il Grande Inquisitore contro gli eretici… a me egli si è rivolto come un apocalittico della controrivoluzione. E in quanto apocalittico mi sono sentito, e mi sento, a lui affine. I temi ci sono comuni anche se ne abbiamo tratto conclusioni opposte… sapevamo di essere nemici acerrimi, ma ci capivamo benissimo. Eravamo consapevoli di una cosa: di parlare allo stesso livello – e questo è molto raro».

Una relazione forse impossibile ma che il medium della filosofia, del dialogo e della discussione ha reso possibile: una storia ancora tutta da leggere.

Matteo Moca è dottore di ricerca in italianistica e insegnante. Scrive, tra gli altri, per Il Tascabile, Il Foglio, Il Riformista, L’indice dei libri del mese, Blow Up e il blog di Kobo. Ha curato per Quodlibet il romanzo di Giovanni Faldella “Madonna di fuoco e Madonna di neve” e pubblicato la monografia “Tra parola e silenzio. Landolfi, Perec, Beckett”.

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